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Comment to Claudio Borghi1, Giovambattista Desideri2

1 Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università degli Studi di Bologna, Ospedale Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, Bologna 2 Dipartimento di Medicina Clinica, Sanità Pubblica, Scienze della Vita e dell’Ambiente Divisione di Geriatria, Università dell’Aquila

La gestione ottimale del rischio cardiovascolare presuppone necessariamente un approccio integrato che miri al controllo dei diversi determinanti del rischio medesimo nel singolo paziente. In ragione del continuum fisiopatologico del rischio cardiovascolare, i target suggeriti dalle linee guida per il controllo dei diversi fattori di rischio devono essere necessariamente contestualizzati al singolo paziente. Per ciò che attiene l’ipertensione arteriosa, le linee guida raccomandano il pronto avvio di un trattamento farmacologico, congiuntamente alle imprescindibili modifiche dello stile di vita, nei pazienti con ipertensione arteriosa di grado 2 o 3 (1).

Tale approccio è anche consigliato per i pazienti con livelli pressori meno elevati (grado 1) ma con un rischio cardiovascolare elevato o che presentino danno d’organo da ipertensione. Esistono, invece, incertezze in merito all’inizio precoce della terapia farmacologica nei pazienti con ipertensione arteriosa di grado 1 e rischio cardiovascolare basso-moderato o ultrasessantenni o nei pazienti con pressione normale-alta (130-139/85-89 mmHg) (1), incertezze derivanti dal fatto che queste tipologie di pazienti sono stati esclusi nella generalità dei casi dai trial clinici.

Invero, la tematica della pressione normale-alta nel corso degli ultimi anni ha destato un interesse crescente da parte della letteratura scientifica in ragione del non trascurabile incremento del rischio di eventi cardiovascolari ad essa connessa, rischio soprattutto rilevante se si considera la enorme prevalenza di questa condizione clinica (2). Invero, l’attenzione delle diverse strategie di prevenzione è generalmente rivolta alle persone ad alto rischio – ad esempio con valori di pressione arteriosa e/o di colesterolemia molto elevati – perchè in questo gruppo di individui la proporzione di eventi è molto elevata. Tuttavia, va sottolineato che il più ampio numero di eventi si registra nelle classi di rischio dove la popolazione è più numerosa, anche se il rischio è più basso (3). Questo fenomeno, ben conosciuto in campo epidemiologico, è noto come “paradosso della prevenzione” che, per l’appunto, afferma che molte persone esposte ad un rischio piccolo possono produrre più casi di malattia di quanti ne producono poche persone esposte a un rischio elevato (3-5). Questo aspetto è di non trascurabile rilevanza in quanto gli interventi preventivi indirizzati ai pazienti a rischio elevato o molto elevato sono evidentemente efficaci ma questi interventi si traducono a livello di popolazione in una riduzione degli eventi numericamente limitata in quanto la stragrande maggioranza degli eventi si verifica nel resto della popolazione che resta generalmente esclusa dai diversi programmi di prevenzione. Negli uomini con un rischio ≥20% (stimato secondo la carta del rischio Progetto Cuore) si verifica mediamente solo un quarto degli eventi totali mentre il restante 75% si verifica in soggetti con un più basso livello di rischio (3). La situazione è analoga nelle donne: le persone a rischio elevato generano solo una piccola parte degli eventi, il 4% (3). È evidente, quindi, che un basso livello di rischio al quale è esposta la larga maggioranza della popolazione produce in termini assoluti un danno maggiore di quello derivato da un rischio elevato al quale è esposto un piccolo gruppo di persone.

Chiaramente quali sono i due approcci cardine della strategia preventiva che devono essere assolutamente tenuti in considerazione: l’approccio preventivo individuale per soggetti ad alto rischio, e l’approccio preventivo di popolazione, con i relativi vantaggi e svantaggi (5). La gestione della pressione norma-alta si viene, quindi, a configurare come una parte integrante, forse quella fondamentale, di un approccio di popolazione.

Il paziente con pressione normale-alta, se può essere definito “paziente” un individuo che formalmente ha valori di pressione normali, almeno dal punto di vista delle linee guida europee, presenta una aumentata suscettibilità a sviluppare danno d’organo da ipertensione ed eventi cardiovascolari ed una aumentata probabilità di diventare francamente iperteso (1). Invero, la nozione epidemiologica che la presenza di pressione normale-alta condizioni un aumentato rischio di eventi cardiovascolari non sorprende più di tanto perché, come opportunamente sottolineava GW Leibniz, Natura non facit saltus (6). Numerosi studi epidemiologici, infatti, hanno dimostrato che la pressione sistolica e diastolica mostrano una relazione – positiva, forte, continua, graduale e fisiopatologicamente differenziata – con gli eventi cardiovascolari (7-13). Questa relazione è bene evidente sia negli uomini che nelle donne, nei soggetti più giovani, meno giovani o anziani, nelle diverse etnie (7-11) e nei diversi paesi (12,13).

Nonostante la chiara evidenza di un continuum di rischio cardiovascolare attraverso i diversi livelli pressori (7-13), l’inquadramento classificativo della popolazione in relazione ai livelli pressori porta inevitabilmente a definire intervalli discreti di pressione a cui compete un diverso livello di rischio ed un diverso approccio gestionale (1). Il riscontro di valori pressione inferiori ai limiti alti della normalità proposti dalle linee guida, non corrisponde, quindi, alla completa assenza di rischio ma definisce – nelle parole di Geoffrey Rose – un’area gestionale nell’ambito della quale il vantaggio che può derivare da approfondimenti diagnostici ed interventi farmacologici non è bene definito (4). A conferma di ciò, l’analisi dei dati dello studio Framingham relativa a 6859 individui senza storia di ipertensione o malattie cardiovascolari al basale ha dimostrato in modo evidenze un significativo incremento del rischio di eventi cardiovascolari nei soggetti con pressione normale-alta rispetto a quelli con pressione ottimale (Figura 1) (14). I risultati degli studi di meta-analisi confermano il peso significativo della pressione norma-alta in termini di rischio cardio- e cerebrovascolare (Figura 2) (15), rischio significativamente esacerbato dalla presenza di fattori di rischio addizionali (16). Non sorprendono, quindi, le diverse definizioni che sono state proposte per indicare la situazione di pressione normale-alta facciano di volta in volta riferiscono alla sua particolare suscettibilità ad evolvere verso una condizione di franca ipertensione (da qui la definizione di pre-ipertensione) a al rischio ad esso connesso (ipertensione di stadio 1 delle linee guida americane) (17). La rilevanza della pressione normale-alta appare soprattutto evidente se analizzata su scala di popolazione (Figura 3) (2). Il rischio di eventi cardiovascolari, infatti, cresce con i valori pressori, ma la prevalenza della mortalità per malattia coronarica ed il relativo eccesso di mortalità attribuibile alla pressione arteriosa è soprattutto evidente nell’ampia popolazione con pressione normale-alta o di grado 1 (2).

La diagnosi di pressione normale-alta

La condizione di pressione normale-alta viene definita, secondo le linee guida europee, da livelli di pressione arteriosa clinica (ossia rilevata nell’ambulatorio del medico) compresa tra 130 e 139 mmHg per la sistolica e/o tra 85 e 89 mmHg per la distolica (1). In presenza di valori di pressione normale-alta le linee guida suggeriscono di confermare questa condizione attraverso ripetute misurazioni di pressione arteriosa al di fuori dell’ambulatorio medico e di considerare la possibilità che il paziente possa presentare una condizione di ipertensione mascherata (Figura 4) (1). I soggetti affetti da ipertensione arteriosa mascherata, infatti, hanno una maggiore frequenza di danno cardiaco o vascolare (ipertrofia ventricolare sinistra, aterosclerosi carotidea, microalbuminuria) e di eventi cardiovascolari rispetto ai soggetti veri normotesi (1,18). Il loro rischio cardiovascolare è sostanzialmente sovrapponibile a quello dei soggetti ipertesi manifesti.

L’automisurazione domiciliare della pressione arteriosa rappresenta indubbiamente uno strumento diagnostico di riferimento per inquadrare correttamente il paziente con pressione normale-alta e per monitorizzare l’evoluzione nel tempo di questa condizione clinica (1). Invero, da alcuni anni a questa parte si sta assistendo ad una diffusione sempre più ampia della misurazione domiciliare della pressione arteriosa (Home Blood Pressure Monitoring), ormai impiegata in modo sempre più esteso nella pratica clinica per valutare il profilo pressorio individuale al di fuori dello studio medico in pazienti con o senza ipertensione arteriosa, grazie ai suoi numerosi vantaggi rispetto alla misurazione in ambiente clinico della pressione arteriosa, ed al rapido sviluppo di strumenti automatici per l’automisurazione a domicilio più precisi ed accurati rispetto alla metodica convenzionale (sfigmomanometro a mercurio) ed anche economicamente accessibili (19). Ovviamente, l’accuratezza della misurazione della pressione arteriosa è fondamentale per la corretta interpretazione e gestione della pressione normale-alta, oltre che, ovviamente, dell’ipertensione. Attualmente sono disponibili strumenti automatici per l’automisurazione pressoria semplici ed affidabili. Sebbene tale metodica sia di facilissima esecuzione, né il medico né il paziente devono indulgere nella tentazione di usare apparecchi, magari a buon mercato, che non siano stati validati da società scientifiche di riconosciuta eccellenza. La validazione di un apparecchio per la misurazione della pressione arteriosa è un momento fondamentale per accertarne la validità in ambito clinico in quanto consente di saggiarne, l’accuratezza (vicinanza del valore rilevato ad un valore accertato come vero) e la precisione (capacità di fornire valori tra loro vicini) al di là dei test effettuati dalla ditta produttrice. Sono attualmente disponibili elenchi dei dispositivi validati su siti internet dedicati (ad esempio, www.dableducational.org oppure www.ipertensionearteriosa.net).

La gestione della pressione normale-alta

La gestione terapeutica della pressione normale-alta rappresenta ancora oggi un terreno di discussione. Infatti, se da un lato il peso della pressione normale alta in termini di rischio cardiovascolare risulta ormai bene definito, meno chiare sono le evidenze relative al possibile beneficio che potrebbe derivare da un trattamento farmacologico (1). Invero, tutti i trial randomizzati controllati (compreso lo studio SPRINT) (20) e le meta-analisi derivate da questi studi (21) che hanno dimostrato una riduzione degli eventi cardiovascolari riducendo ulteriormente valori di pressione arteriosa inquadrabili, al momento dell’arruolamento, come pressione normale-alta, nella realtà dei fatti consideravano pazienti già in trattamento farmacologico. Questi studi non consentono, quindi, di derivare informazioni in merito ai possibili vantaggi che potrebbero derivare iniziando ex novo un trattamento farmacologico in questi pazienti (22). Nello studio HOPE-3, che arruolato pazienti a rischio cardiovascolare intermedio, nella larga maggioranza dei casi (88%) non in trattamento antipertensivo, la prescrizione di un trattamento farmacologico non ha ridotto il rischio di eventi cardiovascolare nel sottogruppo di pazienti con pressione normale-alta (23).

Analogamente, una meta-analisi di 13 studi randomizzati controllati, che ha considerato globalmente 21.128 pazienti a rischio cardiovascolare basso-moderato, non ha evidenziato alcuna riduzione del rischio di eventi cardiovascolari a seguito del trattamento dei pazienti con pressione normale-alta (24). Una ulteriore meta-analisi che ha incluso pazienti con pressione normale-alta non ha dimostrato una efficacia del trattamento antipertensivo, iniziato ex novo, nel ridurre gli eventi cardiovascolari (25). La situazione potrebbe essere diversa nei pazienti con pressione-normale alta e concomitante malattia cardiovascolare nei quali l’efficacia protettiva della terapia antipertensiva è ben chiara.

Una meta-analisi di 10 studi che ha incluso pazienti a rischio cardiovascolare elevato o molto elevato, molti dei quali con preesistente malattia cardiovascolare e pressione normale o normale-alta non trattata (26.863), la riduzione di 4 mmHg di pressione arteriosa in corso di trattamento farmacologico è risultata associata ad una riduzione del rischio di ictus ma non di altri eventi cardiovascolari (24). Una ulteriore meta-analisi di studi che hanno arruolato pazienti con malattia coronarica ed una pressione arteriosa media di 138 mmHg, ha dimostrato una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari maggiori (rischio relativo 0.90, intervallo di confidenza al 95% compreso tra 0.84 e 0.97) in assenza di un significativo aumento della sopravvivenza (rischio relativo 0.98, intervallo di confidenza al 95% compreso tra 0.89 e 1.07) (25).

Questi risultati suggeriscono che il benefico derivante dal trattamento antipertensivo su base farmacologica nei pazienti con pressione normale-alta sia marginale e, se realmente presente, appare confinato ai pazienti con rischio cardiovascolare molto alto e pre-esistente patologia cardiovascolare, soprattutto malattia coronarica. Sulla base di queste evidenze le linee guida suggeriscono il solo approccio non-farmacologico nei pazienti con pressione normale-alta e rischio cardiovascolare basso-moderato quale strumento efficace nel ridurre il rischio di progressione verso una condizione di franca ipertensione come pure di garantire e una efficace protezione cardiovascolare (1).

Per questi pazienti non dovrebbe essere previsto, quindi, un trattamento farmacologico. Tuttavia, sulla base dei risultati dello studio HOPE-3, il trattamento farmacologico potrebbe essere considerato nei pazienti con pressione persistentemente vicina alla soglia di 140/90 mmHg anche dopo piena osservanza delle modifiche dello stile di vita (1).

Nel corso degli ultimi anni la letteratura scientifica ha rivolto una crescente attenzione all’effetto ipotensivante di alcuni nutraceutici. Invero, le evidenze cliniche a supporto dell’impiego di nutraceutici modulanti i livelli pressori nell’uomo sono numerose e spesso raccolte in meta-analisi di trials clinici controllati. La Società Italiana Ipertensione Arteriosa (SIIA), infatti, nel 2019 ha prodotto un ampio documento di consensus evidence-based sul razionale di impiego e l’evidenza clinica supportiva per un numero elevato di nutrienti, nutraceutici e fitoterapici (26). A seguire, un panel di eserti della European Society of Hypertension (ESH) ha redatto un documento più snello, focalizzato su molti meno composti attivi, definendo però alcune precise raccomandazioni, che possono essere schematizzate come segue (27):

Fra gli alimenti, l’evidenza più convincente si ha per barbabietola rossa, ibisco, succo di melograno, semi di sesamo e catechine (specie infuso di tè). La barbabietola rossa è una importante fonte naturale di nitrati quali precursori del monossido di azoto. Una volta ingeriti, i nitrati inorganici vengono metabolizzati alla forma bioattiva (nitriti) e successivamente immessi in circolazione. Il consumo di barbabietole rosse già in acuto è associate a riduzione dei livelli di pressione arteriosa in soggetti normotesi o affetti da ipertensione di primo grado (28,29).

Fra i nutrienti, i livelli pressori possono essere ridotti da magnesio, potassio (da usarsi con cautela nei pazienti con insufficienza renale avanzata e/o assumenti diuretici risparmiatori di potassio/antialdosteronici), e vitamina C. Evidenze derivate da studi preclinici suggeriscono che il magnesio influenzi la regolazione della pressione arteriosa stimolando direttamente la sintesi di prostaciclina ed ossido nitrico, modulando la vasodilatazione endotelio-dipendente ed endotelio indipendente riducendo il tono e la reattività vascolare, e prevenendo il danno vascolare tramite effetti antiossidanti ed antinfiammatori (30-32).

Fra i nutraceutici non-nutrienti sono di interesse gli estratti di aglio invecchiato, la frazione flavonoica del biancospino nei pazienti con scompenso cardiaco iniziale, isoflavoni della soia nelle donne in perimenopausa, il resveratrolo nei soggetti insulino-resistenti, e la melatonina nei soggetti affetti da ipertensione notturna.

In ogni caso, entrambi i documenti promossi da SIIA ed ESH stressano l’importanza di non considerare mai l’approccio nutraceutico in sostituzione di quello farmacologico, quando questo sia indicato.

Conclusione

La pressione normale-alta rappresenta indubbiante una area di intervento in chiave preventiva di grande interesse in ragione della elevata diffusione di questa condizione e, conseguentemente, dell’ampio burden di patologia cardiovascolare ad essa riconducibile. Il suo corretto inquadramento prevede un monitoraggio nel tempo dei valori pressori sia per valutare il suo reale significato clinico che per coglierne l’eventuale evoluzione nel tempo – peraltro non infrequente – verso una condizione di ipertensione conclamata (Figura 5).

La sua gestione terapeutica prevede sempre un intervento che sia correttivo di stili di vita non completamente adeguati e l’uso di farmaci antipertensivi nei pazienti a rischio cardiovascolare molto elevato.

Nei soggetti a rischio cardiovascolare moderato o basso non è previsto l’uso di farmaci antipertensivi in ragione della non disponibilità di studi che abbiano affrontato questa tematica. Il controllo dei valori pressori nei pazienti con pressione normale-alta, almeno in linea teorica, dovrebbe comunque poter condizionare non trascurabili vantaggi in termini di protezione cardiovascolare. In assenza di indicazioni all’uso di farmaci antipertensivi, l’uso di nutraceutici con documentati effetti ipotensivanti rappresenta senza dubbio un soluzione gestionale adeguata (26).

Per alcuni nutraceutici l’evidenza clinica di efficacia antipertensiva è corroborata da numerosi trials clinici randomizzati in doppio cieco. Tale mole di evidenza ha portato società scientifiche importanti come SIIA (26) ed ESH (27) ad esprimere un parere positivo circa l’impiego di nutraceutici “evidence-based”, sempre con la consapevolezza che questi non potranno mai sostituire la terapia farmacologica standard e che comunque ulteriore ricerca è necessaria per valutare la loro efficacia (anche in termini preventivi) sul lungo termine di somministrazione.

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