Home>Magazine>PCR 2_2024>Farmaco o uomo: chi comanda la aderenza terapeutica?

Comment to Claudio Borghi

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

La terapia farmacologica delle malattie cardiovascolari si basa su due aspetti fondamentali. Da un lato la disponibilità di farmaci efficaci in grado di incidere in maniera risolutiva nei confronti delle patologie per le quali sono stati prescritti e dall’altro la capacità dei pazienti di assumere in maniera regolare e adeguata i farmaci prescritti. Il primo punto dipende sostanzialmente dalla qualità della ricerca clinica e dai risultati degli studi che sono in grado di identificare l’ambito di efficacia della terapia. A questi si aggiungono le informazioni relative agli studi di popolazione che spesso sono in grado di fornire informazioni aggiuntive rispetto a quelle forzatamente limitate che derivano dagli studi clinici e dai loro limiti in termini di selezione della popolazione oggetto di studio

Tuttavia, questa quantità di evidenze cliniche più o meno rilevanti risulta pressoché totalmente “inefficace” se non associate alla propensione dei pazienti ad assumere i farmaci nelle modalità nelle quali hanno mostrato una innegabile efficacia. La scarsa aderenza alla terapia è un fenomeno assai diffuso che affligge soprattutto quelle condizioni che richiedono un trattamento giornaliero, talora con un numero elevato di compresse. Il paradigma della scarsa aderenza terapeutica sono sicuramente la ipertensione e le dislipidemie che vanno incontro ad un trattamento adeguato in meno del 50% della popolazione con una perdita di popolazione superiore ad un terzo entro i primi tre mesi dopo la prescrizione dei farmaci. La perdita di aderenza affligge in maniera differenziata gli uomini e le donne, i pazienti anziani rispetto a quelli più giovani, ma il fattore di maggiore rilevanza in questo ambito è certamente il numero di compresse materialmente assunte dai pazienti che risulta numericamente proporzionale alla perdita di affezione per la assunzione corretta di farmaci. In particolare, la scarsa aderenza terapeutica è un fenomeno di tipo dinamico, con pazienti che modificano il proprio atteggiamento in merito, in maniera dipendente da fattori contingenti, tra i quali vanno annoverati la percezione di efficacia e di necessità del trattamento e la tollerabilità della terapia con una ovvia riduzione della aderenza sulla base della prevalenza di effetti indesiderati. Probabilmente non solo la comparsa di effetti indesiderati gioca un ruolo cruciale, ma anche la percezione della probabilità di comparsa degli stessi, ed ancora una volta gli esempi più chiari in ambito cardiovascolare vengono dalla aderenza nei confronti di due classi cruciali di farmaci come gli ACE-inibitori e le statine. In particolare, gli aspetti di tipo divulgativo circa la frequenza di tosse (ACE-inibitori) o mialgia (statine) reperibili su improbabili canali di divulgazione para-scientifici, tendono ad incrementare la probabilità a priori dello sviluppo di effetti indesiderati come evidenziato da una intelligente sotto-analisi dello studio ASCOT-LLA che rivela come la incidenza di miopatie da statine sia più che raddoppiata dopo la apertura del cieco e la somministrazione in aperto ai pazienti della stessa dose di atorvastatina con la quale erano stati in terpia nei mesi precedenti.

Quanto ai metodi per ridurre il flagello della scarsa aderenza al trattamento, quelli che si sono rivelati di maggiore impatto sono la più stretta interazione tra medico e paziente che determina un aumento del livello di comprensione sulla importanza della terapia e il ricorso ad una riduzione drastica del numero di compresse somministrate giornalmente attraverso una costante rivalutazione della opportunità della terapie e l’impiego di combinazioni fisse di farmaci somministrati sotto forma di una singola pillola che contiene più componenti attivi. A questo approccio si associano oggi gli strumenti tecnologici come app dedicate o algoritmi di gestione intelligente della aderenza dispensati attraverso strumenti portatili (smartphone o dispositivi da polso) che mantengano un contatto del paziente con le sue prescrizioni e rammentino in modo sistematico la necessità ed il momento previsto per la assunzione di farmaci. In termini pratici, il ricorso a singole pillole multipotenti (single pill combination= SPC o polipillole) ha mostrato tutta la sua efficacia soprattutto attraverso le evidenze degli studi di real life che hanno mostrato come il passaggio dalla somministrazione separata di determinate classi di farmaci (i.e. antiipertensivi e/o statine) alla singola compressa contenente analoghi farmaci e dosi determini un miglioramento della aderenza al trattamento cui consegue un più efficace controllo pressorio e del profilo lipidico, una riduzione significativa della incidenza di eventi cardiovascolari maggiori e, soprattutto, una riduzione della quantità di denaro necessaria per fronteggiare le strategie di prevenzione attraverso una riduzione dei costi conseguente alle minore esigenze di ricovero e gestione delle complicanze. Tuttavia anche questo approccio che rappresenta certamente quello più avanzato in termini terapeutici in quanto permette di ottenere in un singolo istante la somministrazione di più principi attivi, potrebbe avere una ulteriore evoluzione in grado di attenuare in maniera significativa il problema della scarsa aderenza. Una delle possibili soluzioni potrebbe essere l’impiego di farmaci “multitarget” come gli inibitori di SGLT2 o gli agonisti di GLP1 oggi largamente impiegati nella pratica clinica in diverse condizioni cliniche a base cardiovascolare ed in grado di esprimere la loro efficacia nei confronti di meccanismi d’azione multipli con conseguente riduzione del ricorso alla terapia concomitante. La seconda possibilità potrebbe invece essere rappresentata dai nuovi farmaci biologici di derivazione genetica, tra i quali gli anticorpi monoclonali (Ab), gli oligonucleotidi antisenso (ASO) e soprattutto le piccole molecole che somministrabili sottocute che agiscono come silenziatori di mRNA (siRNA) che sono in grado di esercitare la loro efficacia nei confronti di bersagli proteici per periodi di mesi 6-12 cancellando pressoché totalmente il concetto di somministrazione giornaliera della terapia.

Farmaci con queste caratteristiche ne esistono soprattutto in ambito lipidico e diretti contro la proteina PCSK9, ma molti altri sono in fase avanzata di sviluppo ed indirizzati verso altri bersagli terapeutici (APO-CIII, ANGPTL-3, ecc) ed in grado di produrre risultati straordinari nei confronti dei livelli di lipoproteine ricche di colesterolo e trigliceridi. Tuttavia, il mondo dei farmaci a bersaglio genetico si sta approcciando anche al più importante fattore di rischio e cioè la ipertensione arteriosa attraverso lo sviluppo di strategie indirizzate alla inibizione della sintesi epatica di angiotensinogeno in grado di determinare un blocco persistente della attività del sistema RAA circolante senza interferire in maniera significativa con la attività tissutale dello stesso, più coinvolta nel controllo pressorio renale in condizioni di emergenza coma la ipovolemia.

Tutto ciò ci proietta in un mondo del presente che apre la strada ad ogni possibile soluzione terapeutica, somministrabile in forma diversa da quella orale, con una durata di efficacia multi mensile e forse annuale e che potrebbe essere la vera e definitiva soluzione del problema della aderenza, viste le evidenze che dimostrato la persistenza di un solido effetto residuo di questi farmaci anche in condizioni di non pieno rispetto degli intervalli di somministrazione, ma soprattutto considerando che l’intervallo di somministrazione corretto di questi farmaci non sono le 24 ore correnti, ma probabilmente l’ambito di 7 giorni prima o dopo la data ideale di somministrazione il che permette ampi margini di recupero per tutte quelle situazioni in cui il rispetto delle tempistica non è possibile è perduto per scarsa concentrazione.

Quindi è il farmaco che vince sulla volontà dell’uomo e risolve il problema della aderenza? In linea teorica si, nella pratica i costi di queste nuove molecole e le limitazioni imposte al loro impiego dai sistemi regolatori non cancelleranno le difficoltà attuali a mantenere una assunzione adeguata della terapia da parte della maggior parte dei pazienti, ma almeno incominceranno a proporre una nuova visione della terapia nella quale sia il farmaco a rendersi disponibile ad adeguarsi alle necessità dell’uomo che sono quelle di vivere sano, curarsi in maniera efficace e non immaginare il gesto di curarsi come un momento di odiosa interferenza con la propria qualità di vita.

Autore/i: Claudio Borghi

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

Figura
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Autore/i: Claudio Borghi

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

La terapia farmacologica delle malattie cardiovascolari si basa su due aspetti fondamentali. Da un lato la disponibilità di farmaci efficaci in grado di incidere in maniera risolutiva nei confronti delle patologie per le quali sono stati prescritti e dall’altro la capacità dei pazienti di assumere in maniera regolare e adeguata i farmaci prescritti. Il primo punto dipende sostanzialmente dalla qualità della ricerca clinica e dai risultati degli studi che sono in grado di identificare l’ambito di efficacia della terapia. A questi si aggiungono le informazioni relative agli studi di popolazione che spesso sono in grado di fornire informazioni aggiuntive rispetto a quelle forzatamente limitate che derivano dagli studi clinici e dai loro limiti in termini di selezione della popolazione oggetto di studio

Tuttavia, questa quantità di evidenze cliniche più o meno rilevanti risulta pressoché totalmente “inefficace” se non associate alla propensione dei pazienti ad assumere i farmaci nelle modalità nelle quali hanno mostrato una innegabile efficacia. La scarsa aderenza alla terapia è un fenomeno assai diffuso che affligge soprattutto quelle condizioni che richiedono un trattamento giornaliero, talora con un numero elevato di compresse. Il paradigma della scarsa aderenza terapeutica sono sicuramente la ipertensione e le dislipidemie che vanno incontro ad un trattamento adeguato in meno del 50% della popolazione con una perdita di popolazione superiore ad un terzo entro i primi tre mesi dopo la prescrizione dei farmaci. La perdita di aderenza affligge in maniera differenziata gli uomini e le donne, i pazienti anziani rispetto a quelli più giovani, ma il fattore di maggiore rilevanza in questo ambito è certamente il numero di compresse materialmente assunte dai pazienti che risulta numericamente proporzionale alla perdita di affezione per la assunzione corretta di farmaci. In particolare, la scarsa aderenza terapeutica è un fenomeno di tipo dinamico, con pazienti che modificano il proprio atteggiamento in merito, in maniera dipendente da fattori contingenti, tra i quali vanno annoverati la percezione di efficacia e di necessità del trattamento e la tollerabilità della terapia con una ovvia riduzione della aderenza sulla base della prevalenza di effetti indesiderati. Probabilmente non solo la comparsa di effetti indesiderati gioca un ruolo cruciale, ma anche la percezione della probabilità di comparsa degli stessi, ed ancora una volta gli esempi più chiari in ambito cardiovascolare vengono dalla aderenza nei confronti di due classi cruciali di farmaci come gli ACE-inibitori e le statine. In particolare, gli aspetti di tipo divulgativo circa la frequenza di tosse (ACE-inibitori) o mialgia (statine) reperibili su improbabili canali di divulgazione para-scientifici, tendono ad incrementare la probabilità a priori dello sviluppo di effetti indesiderati come evidenziato da una intelligente sotto-analisi dello studio ASCOT-LLA che rivela come la incidenza di miopatie da statine sia più che raddoppiata dopo la apertura del cieco e la somministrazione in aperto ai pazienti della stessa dose di atorvastatina con la quale erano stati in terpia nei mesi precedenti.

Quanto ai metodi per ridurre il flagello della scarsa aderenza al trattamento, quelli che si sono rivelati di maggiore impatto sono la più stretta interazione tra medico e paziente che determina un aumento del livello di comprensione sulla importanza della terapia e il ricorso ad una riduzione drastica del numero di compresse somministrate giornalmente attraverso una costante rivalutazione della opportunità della terapie e l’impiego di combinazioni fisse di farmaci somministrati sotto forma di una singola pillola che contiene più componenti attivi. A questo approccio si associano oggi gli strumenti tecnologici come app dedicate o algoritmi di gestione intelligente della aderenza dispensati attraverso strumenti portatili (smartphone o dispositivi da polso) che mantengano un contatto del paziente con le sue prescrizioni e rammentino in modo sistematico la necessità ed il momento previsto per la assunzione di farmaci. In termini pratici, il ricorso a singole pillole multipotenti (single pill combination= SPC o polipillole) ha mostrato tutta la sua efficacia soprattutto attraverso le evidenze degli studi di real life che hanno mostrato come il passaggio dalla somministrazione separata di determinate classi di farmaci (i.e. antiipertensivi e/o statine) alla singola compressa contenente analoghi farmaci e dosi determini un miglioramento della aderenza al trattamento cui consegue un più efficace controllo pressorio e del profilo lipidico, una riduzione significativa della incidenza di eventi cardiovascolari maggiori e, soprattutto, una riduzione della quantità di denaro necessaria per fronteggiare le strategie di prevenzione attraverso una riduzione dei costi conseguente alle minore esigenze di ricovero e gestione delle complicanze. Tuttavia anche questo approccio che rappresenta certamente quello più avanzato in termini terapeutici in quanto permette di ottenere in un singolo istante la somministrazione di più principi attivi, potrebbe avere una ulteriore evoluzione in grado di attenuare in maniera significativa il problema della scarsa aderenza. Una delle possibili soluzioni potrebbe essere l’impiego di farmaci “multitarget” come gli inibitori di SGLT2 o gli agonisti di GLP1 oggi largamente impiegati nella pratica clinica in diverse condizioni cliniche a base cardiovascolare ed in grado di esprimere la loro efficacia nei confronti di meccanismi d’azione multipli con conseguente riduzione del ricorso alla terapia concomitante. La seconda possibilità potrebbe invece essere rappresentata dai nuovi farmaci biologici di derivazione genetica, tra i quali gli anticorpi monoclonali (Ab), gli oligonucleotidi antisenso (ASO) e soprattutto le piccole molecole che somministrabili sottocute che agiscono come silenziatori di mRNA (siRNA) che sono in grado di esercitare la loro efficacia nei confronti di bersagli proteici per periodi di mesi 6-12 cancellando pressoché totalmente il concetto di somministrazione giornaliera della terapia.

Farmaci con queste caratteristiche ne esistono soprattutto in ambito lipidico e diretti contro la proteina PCSK9, ma molti altri sono in fase avanzata di sviluppo ed indirizzati verso altri bersagli terapeutici (APO-CIII, ANGPTL-3, ecc) ed in grado di produrre risultati straordinari nei confronti dei livelli di lipoproteine ricche di colesterolo e trigliceridi. Tuttavia, il mondo dei farmaci a bersaglio genetico si sta approcciando anche al più importante fattore di rischio e cioè la ipertensione arteriosa attraverso lo sviluppo di strategie indirizzate alla inibizione della sintesi epatica di angiotensinogeno in grado di determinare un blocco persistente della attività del sistema RAA circolante senza interferire in maniera significativa con la attività tissutale dello stesso, più coinvolta nel controllo pressorio renale in condizioni di emergenza coma la ipovolemia.

Tutto ciò ci proietta in un mondo del presente che apre la strada ad ogni possibile soluzione terapeutica, somministrabile in forma diversa da quella orale, con una durata di efficacia multi mensile e forse annuale e che potrebbe essere la vera e definitiva soluzione del problema della aderenza, viste le evidenze che dimostrato la persistenza di un solido effetto residuo di questi farmaci anche in condizioni di non pieno rispetto degli intervalli di somministrazione, ma soprattutto considerando che l’intervallo di somministrazione corretto di questi farmaci non sono le 24 ore correnti, ma probabilmente l’ambito di 7 giorni prima o dopo la data ideale di somministrazione il che permette ampi margini di recupero per tutte quelle situazioni in cui il rispetto delle tempistica non è possibile è perduto per scarsa concentrazione.

Quindi è il farmaco che vince sulla volontà dell’uomo e risolve il problema della aderenza? In linea teorica si, nella pratica i costi di queste nuove molecole e le limitazioni imposte al loro impiego dai sistemi regolatori non cancelleranno le difficoltà attuali a mantenere una assunzione adeguata della terapia da parte della maggior parte dei pazienti, ma almeno incominceranno a proporre una nuova visione della terapia nella quale sia il farmaco a rendersi disponibile ad adeguarsi alle necessità dell’uomo che sono quelle di vivere sano, curarsi in maniera efficace e non immaginare il gesto di curarsi come un momento di odiosa interferenza con la propria qualità di vita.

Autore/i: Claudio Borghi

Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Università di Bologna

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