Forse qualcuno ricorderà John Malcolm Cruickshank ed uno dei suoi tanti articoli, in questo caso caratterizzato da uno stile “british” (1): “i beta-bloccanti nel diabete mellito. I cattivi ragazzi sono diventati buoni”.
Quell’articolo, in realtà una bella rassegna ha, avuto fin dal 2002, anno della pubblicazione, un curioso destino
Da un lato, infatti, il comune sentire scientifico si orientò in chiave favorevole rispetto all’uso dei beta-bloccanti nel paziente diabetico iperteso (2) e/o affetto da scompenso cardiaco (3) e/o cardiopatia ischemica (4). Dall’altro, invece, il mondo non cardiologico e/o internistico rimase perplesso nei confronti dell’uso “allargato” dei beta-bloccanti. Ciò è ben testimoniato, in positivo, da due autorevoli articoli (5,6) che richiamano l’attenzione del clinico sulla necessità di considerare i beta-bloccanti come farmaci di prima scelta nel contesto del trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa, anche nel contesto della terapia di combinazione, in modo completamente indipendentemente dalla presenza o meno di diabete mellito. In modo ancor più convincente, sempre relativamente all’ipertensione arteriosa, una eccellente meta-analisi fondata su dati individuali (7) dimostra che ogni classe di farmaci antipertensivi – inclusi i beta-bloccanti – è in grado di ridurre gli eventi cardiovascolari, ancora una volta indipendentemente dalla presenza o meno di diabete mellito. In altre parole, da questa meta-analisi non si riesce a supportare alcuna reale controindicazione alla prescrizione dei beta-bloccanti nel paziente diabetico. Con ogni probabilità, anzi, i risultati in favore dei beta-bloccanti sarebbero stati ancora migliori se la grande maggioranza degli studi condotti nel contesto dell’ipertensione arteriosa non avesse avuto come trattamento di base quello con atenololo, farmaco dotato di ottima potenza antiipertensiva, ma anche di una evidente inferiorità cardiopreventiva in confronto ad altre classi di farmaci e degli altri beta-bloccanti (8). Questo in ragione di una manifesta inferiorità di atenololo nei confronti della prevenzione dell’ictus ischemico (8,9), messa in evidenza dai dati delle meta-analisi e da uno studio fondamentale come il Losartan Intervention For Endpoint reduction in hypertension (LIFE).
In contrasto con quanto sopra, altri beta-bloccanti hanno dimostrato di avere una eccellente efficacia antiipertensiva, senza essere però inferiori alle altre classi di farmaci antiipertensivi in termini di cardio-cerebroprotezione. Questo tanto nel paziente diabetico, quanto in generale. Il bisoprololo, ad esempio, è un beta-bloccante beta1-selettivo sovente usato in combinazione fissa al tiazidico nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. In questa patologia, il beta-bloccante beta1-selettivo ha dimostrato di avere una efficacia antiipertensiva comparabile a quella di ogni altro antiipertensivo, con un eccellente profilo di sicurezza (10).
In particolare, grazie alla valutazione di 267.352 pazienti ipertesi nella “vita reale” è stato possibile rilevare uno stabile controllo della pressione arteriosa sistolica e diastolica nel corso del follow up (10). Di consistente interesse clinico, i pazienti che erano randomizzati a bisoprololo erano decisamente più complessi rispetto agli altri, riportando un più elevato grado di patologie concomitanti e, rispettivamente nel 15% e 36% dei casi, risultando affetti da tabagismo e/o in trattamento cronico con farmaci potenzialmente ipertensivanti come gli antiinfiammatori non steroidei, gli steroidi, alcuni immunosoppressori e/o gli estrogeni (10). Per quanto attiene il diabete, l’analisi effettuata con propensity score matching mostrava la mantenuta efficacia di bisoprololo, senza che fosse possibile rilevare una maggiore insorgenza di quegli effetti collaterali – deterioramento del controllo metabolico o crisi ipoglicemiche più severe – che sono state spesso chiamate in causa per limitare la prescrizione dei beta-bloccanti nel paziente diabetico.
In questo contesto, sostanzialmente favorevole all’uso dei beta-bloccanti nel paziente iperteso diabetico, come è possibile spiegare alcuni dati dissonanti, quali quelli riscontrati in una analisi post hoc dello studio Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes (ACCORD) (11)? Nell’ACCORD, come è noto l’uso dei beta-bloccanti si associava ad un aumentato rischio di eventi cardiovascolari durante un follow up pari a 4.6±1.6 anni. Inoltre, l’incidenza di ipoglicemie severe che richiedevano assistenza medica e confermate da valori di glicemia <50 mg/dl, era significativamente più alta nei diabetici in trattamento con b-bloccanti. Uno studio osservazionale, bisogna dire, effettuato comparando 2.840 diabetici versus 14.684 non diabetici è sembrato confermare qualche perplessità relativa all’uso del beta-bloccante nella popolazione generale di diabetici (12), quindi anche nel paziente diabetico con altre patologie, quali ad esempio lo scompenso cardiaco. Pertanto, i dati post hoc dell’ACCORD (11) e lo studio osservazionale già citato (12) hanno suscitato un certo clamore, suscitando qualche osservazione negativa anche eccedente l’ipertensione arteriosa e, segnatamente, riguardante lo scompenso cardiaco nel paziente diabetico.
Malgrado questo, va detto che l’opinione positiva della comunità scientifica nei confronti dell’uso del beta-bloccante nel paziente diabetico non è stata apparentemente scalfita o, se lo è stata, ciò è avvenuto con un impatto men che modesto. Le Linee Guida della European Association of Cardiology (ESC)/ European Association for the Study of Diabetes (EASD) raccomandano (Classe I livello A) il beta-bloccante nel paziente diabetico con scompenso cardiaco con ridotta frazione di eiezione (13). Lo stesso si può dire nel post-infarto con frazione di eiezione <40% (13). Pertanto, l’uso del beta-bloccante è consentito – anzi: è atteso esercitare effetti favorevoli – nel paziente diabetico, anche in presenza di comorbosità quali l’ipertensione arteriosa, la cardiopatia ischemica e/o lo scompenso cardiaco con frazione di eiezione ridotta (5,6,12,13). La scelta del beta-bloccante, ovviamente, dovrà però ricadere su quelli beta1-selettivi, maggiormente efficaci e meglio tollerati rispetto ai non selettivi, come ben dimostrato dal Cardiac Insufficiency Bisoprolol Study II (CIBIS-II) (14). In questo studio, in particolare, la valutazione retrospettiva dell’efficacia e sicurezza di bisoprololo nel paziente con scompenso cardiaco e diabete mellito ha chiaramente dimostrato la capacità di bisoprololo di ridurre la mortalità anche nel paziente diabetico (-19%).
Oltre a quanto sopra, non è da trascurare il differente impatto sulla funzione respiratoria dei diversi beta-bloccanti. Infatti, l’uso di beta-bloccanti beta1-selettivi è in grado di preservare la pervietà delle vie aeree, come rilevato grazie ad uno studio in cui pazienti affetti da scompenso cardiaco sono stati trattati con il beta-bloccante beta1-selettivo bisoprololo successivamente ad un trattamento con il non selettivo carvedilolo, riportando un significativo incremento del forced expiratory volume in 1 second (FEV1) (15,16). Verosimilmente, inoltre, la prescrizione del beta-bloccante nel paziente con scompenso cardiaco, sia diabetico che non diabetico, deve prevedere l’uso non solo preferenziale del beta1-selettivo, ma anche il raggiungimento di dosaggi adeguati. In uno studio prospettico condotto in 1789 pazienti ambulatoriali affetti da scompenso cardiaco (età media 69.6±12.5 anni, 73% maschi), infatti, l’uso della dose intermedia o massimale di bisoprololo o di bisoprololo-equivalente è stata combinata alla maggiore riduzione di mortalità, progressione dello scompenso e/o morte improvvisa. Questo sia nella popolazione generale di pazienti che in quella (28%) affetta da diabete mellito (17).
A nostro giudizio, pertanto, il possibile limite di rilevazioni osservazionali (12) e dell’analisi post hoc dell’ACCORD (11) – pur entrambi di grande interesse – giace proprio nelle malattie concomitanti e nel tipo di beta-bloccante usato.
Per quanto attiene il primo punto, infatti, malgrado questo non si evinca né dal lavoro originale né dai dati pubblicati come supplemento, risulta davvero difficile pensare che un paziente diabetico riceva un beta-bloccante – o non lo riceva – in parità assoluta di condizioni patologiche concomitanti. Ciò con particolare riferimento alla cardiopatia ischemica ed allo scompenso cardiaco, patologie nelle quali il beta-bloccante rappresenta un consolidato caposaldo di trattamento anche in presenza di diabete mellito (15).
Per quanto attiene, invece, il secondo possibile limite, non sono rilevabili informazioni su quale beta-bloccante – certamente diversi – sia stato usato nell’ACCORD. Lasciando perdere il potere statistico, comunque debole, di questa analisi post hoc (11), resta infatti – e pesa come un macigno – la mancata considerazione delle differenze nelle proprietà farmacologiche tra beta-bloccanti selettivi e non selettivi. I beta1-selettivi, infatti, esercitano una maggior protezione a livello miocardico rispetto ai non selettivi, con più elevata maneggevolezza e minore interferenza con altri sistemi (15,16).
Pertanto, passare dall’ipotesi che i beta-bloccanti possano avere un ruolo protettivo nel paziente diabetico a quella che i beta-bloccanti siano combinati ad un maggior rischio di eventi cardiovascolari nello stesso paziente sembra azzardato. Questo è vero – crediamo di aver dimostrato o, almeno, supportato in modo almeno convincente – anche nei sottogruppi di pazienti affetti da malattie concomitanti e, specificatamente, nel paziente diabetico iperteso e/o con scompenso cardiaco caratterizzato da una ridotta frazione di eiezione.
Noi, personalmente, riteniamo che – nella vita reale, il beta-bloccante sia usualmente prescritto ad un paziente più complesso, sia se diabetico, sia se non diabetico. Questo è il vero elemento che può minimizzare, se non nascondere, i benefici che derivano dalla prescrizione del beta-bloccante nel trattamento del paziente diabetico, ma anche in quello affetto da malattie respiratorie croniche o “semplicemente” anziano (15).
Bisoprololo, carvedilolo, metoprololo e nebivololo sono stati valutati in studi clinici randomizzati su vasta scala, dimostrando di poter ridurre le ospedalizzazioni e prolungare la sopravvivenza (15,18). Siamo quindi d’accordo pienamente con le due recenti rivisitazioni (5,6) (Figura 1) che nuovamente, come Cruickshank nel lontano inizio di questo millennio (1), riportano i beta-bloccanti – soprattutto se b1-selettivi – all’attenzione del clinico, non “anche” bensì soprattutto nel paziente diabetico. Siamo anche d’accordo, infine, con una oculata disamina di autori italiani, che chiaramente dimostrano come il beta-bloccante sia efficace e sicuro nel paziente con scompenso cardiaco, anche quando affetto da patologie concomitanti quali il diabete mellito (15). In accordo completo con ciò, le più recenti Linee Guida per il trattamento dell’ipertensione arteriosa – pubblicate nel giugno 2023 – hanno rimesso i beta-bloccanti al centro di una strategia antiipertensiva che addirittura prescinde da specifiche indicazioni (ad esempio: fibrillazione atriale) e, comunque, dalla presenza o meno di diabete mellito (19). I beta-bloccanti citati nelle Linee Guida sono, in particolare, il bisoprololo ed il nebivololo, quest’ultimo caratterizzato da almeno due studi che – nel contesto della vita reale – ne dimostrano la netta superiorità cardio-cerebropreventiva nei confronti soprattutto di atenololo (Figura 2) (20,21). Oltre a ciò nebivololo è anche l’unico beta-bloccante che – grazie alla peculiare ed unica attività stimolatoria nei confronti del recettore b3 (Figura 3) – è in grado di promuovere una significativa produzione di monossido di azoto e, quindi, una significativa vasodilatazione endotelio-dipendente. Di particolare rilievo clinico, grazie anche a questa specifica attività, nebivololo è l’unico beta-bloccante che non deteriora, ma anzi migliora, la sensibilità insulinica (22). Allo stesso modo, nebivololo è l’unico beta-bloccante per il quale uno specifico gruppo di lavoro della Società Europea dell’Ipertensione Arteriosa ha dichiarato l’assenza di influenze negative sulla funzione erettile nel maschio (23): “l’impatto benefico di nebivololo sulla funzione erettile è stato dimostrato in numerosi studi clinici randomizzati”.
I beta-bloccanti, in conclusione, sono farmaci che vanno tutt’altro che evitati nel paziente diabetico. Nel loro contesto, tuttavia, è necessario distinguere tra quelli che – pur eccellenti – hanno una minore b1-selettività rispetto ad altri, quali bisoprololo e nebivololo – e quelli che – in ragione della peculiare stimolazione del recettore b3 – sono in grado di esercitare una maggiore azione cardioprotettiva e cerebroprotettiva, senza interferire – se non positivamente – con il metabolismo glicolipidico e con la funzione erettile (22,23). È questo il caso unico del nebivololo, non a caso più volte citato nelle Linee Guida ESH sull’ipertensione arteriosa pubblicate nel giugno del 2023 (19).
Bibliografia
- Cruickshank JM. Beta-blockers and diabetes: the bad guys come good. Cardiovasc Drugs Ther. 2002;16(5):457-70
- Wei J, Galaviz KI, Kowalski AJ, Magee MJ, Haw JS, Narayan KMV, Ali MK. Comparison of Cardiovascular Events Among Users of Different Classes of Antihypertension Medications: A Systematic Review and Network Meta-analysis. JAMA Netw Open. 2020;3(2):e1921618. doi: 10.1001/jamanetworkopen.2019.21618.
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Forse qualcuno ricorderà John Malcolm Cruickshank ed uno dei suoi tanti articoli, in questo caso caratterizzato da uno stile “british” (1): “i beta-bloccanti nel diabete mellito. I cattivi ragazzi sono diventati buoni”.
Quell’articolo, in realtà una bella rassegna ha, avuto fin dal 2002, anno della pubblicazione, un curioso destino
Da un lato, infatti, il comune sentire scientifico si orientò in chiave favorevole rispetto all’uso dei beta-bloccanti nel paziente diabetico iperteso (2) e/o affetto da scompenso cardiaco (3) e/o cardiopatia ischemica (4). Dall’altro, invece, il mondo non cardiologico e/o internistico rimase perplesso nei confronti dell’uso “allargato” dei beta-bloccanti. Ciò è ben testimoniato, in positivo, da due autorevoli articoli (5,6) che richiamano l’attenzione del clinico sulla necessità di considerare i beta-bloccanti come farmaci di prima scelta nel contesto del trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa, anche nel contesto della terapia di combinazione, in modo completamente indipendentemente dalla presenza o meno di diabete mellito. In modo ancor più convincente, sempre relativamente all’ipertensione arteriosa, una eccellente meta-analisi fondata su dati individuali (7) dimostra che ogni classe di farmaci antipertensivi – inclusi i beta-bloccanti – è in grado di ridurre gli eventi cardiovascolari, ancora una volta indipendentemente dalla presenza o meno di diabete mellito. In altre parole, da questa meta-analisi non si riesce a supportare alcuna reale controindicazione alla prescrizione dei beta-bloccanti nel paziente diabetico. Con ogni probabilità, anzi, i risultati in favore dei beta-bloccanti sarebbero stati ancora migliori se la grande maggioranza degli studi condotti nel contesto dell’ipertensione arteriosa non avesse avuto come trattamento di base quello con atenololo, farmaco dotato di ottima potenza antiipertensiva, ma anche di una evidente inferiorità cardiopreventiva in confronto ad altre classi di farmaci e degli altri beta-bloccanti (8). Questo in ragione di una manifesta inferiorità di atenololo nei confronti della prevenzione dell’ictus ischemico (8,9), messa in evidenza dai dati delle meta-analisi e da uno studio fondamentale come il Losartan Intervention For Endpoint reduction in hypertension (LIFE).
In contrasto con quanto sopra, altri beta-bloccanti hanno dimostrato di avere una eccellente efficacia antiipertensiva, senza essere però inferiori alle altre classi di farmaci antiipertensivi in termini di cardio-cerebroprotezione. Questo tanto nel paziente diabetico, quanto in generale. Il bisoprololo, ad esempio, è un beta-bloccante beta1-selettivo sovente usato in combinazione fissa al tiazidico nel trattamento dell’ipertensione arteriosa. In questa patologia, il beta-bloccante beta1-selettivo ha dimostrato di avere una efficacia antiipertensiva comparabile a quella di ogni altro antiipertensivo, con un eccellente profilo di sicurezza (10).
In particolare, grazie alla valutazione di 267.352 pazienti ipertesi nella “vita reale” è stato possibile rilevare uno stabile controllo della pressione arteriosa sistolica e diastolica nel corso del follow up (10). Di consistente interesse clinico, i pazienti che erano randomizzati a bisoprololo erano decisamente più complessi rispetto agli altri, riportando un più elevato grado di patologie concomitanti e, rispettivamente nel 15% e 36% dei casi, risultando affetti da tabagismo e/o in trattamento cronico con farmaci potenzialmente ipertensivanti come gli antiinfiammatori non steroidei, gli steroidi, alcuni immunosoppressori e/o gli estrogeni (10). Per quanto attiene il diabete, l’analisi effettuata con propensity score matching mostrava la mantenuta efficacia di bisoprololo, senza che fosse possibile rilevare una maggiore insorgenza di quegli effetti collaterali – deterioramento del controllo metabolico o crisi ipoglicemiche più severe – che sono state spesso chiamate in causa per limitare la prescrizione dei beta-bloccanti nel paziente diabetico.
In questo contesto, sostanzialmente favorevole all’uso dei beta-bloccanti nel paziente iperteso diabetico, come è possibile spiegare alcuni dati dissonanti, quali quelli riscontrati in una analisi post hoc dello studio Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes (ACCORD) (11)? Nell’ACCORD, come è noto l’uso dei beta-bloccanti si associava ad un aumentato rischio di eventi cardiovascolari durante un follow up pari a 4.6±1.6 anni. Inoltre, l’incidenza di ipoglicemie severe che richiedevano assistenza medica e confermate da valori di glicemia <50 mg/dl, era significativamente più alta nei diabetici in trattamento con b-bloccanti. Uno studio osservazionale, bisogna dire, effettuato comparando 2.840 diabetici versus 14.684 non diabetici è sembrato confermare qualche perplessità relativa all’uso del beta-bloccante nella popolazione generale di diabetici (12), quindi anche nel paziente diabetico con altre patologie, quali ad esempio lo scompenso cardiaco. Pertanto, i dati post hoc dell’ACCORD (11) e lo studio osservazionale già citato (12) hanno suscitato un certo clamore, suscitando qualche osservazione negativa anche eccedente l’ipertensione arteriosa e, segnatamente, riguardante lo scompenso cardiaco nel paziente diabetico.
Malgrado questo, va detto che l’opinione positiva della comunità scientifica nei confronti dell’uso del beta-bloccante nel paziente diabetico non è stata apparentemente scalfita o, se lo è stata, ciò è avvenuto con un impatto men che modesto. Le Linee Guida della European Association of Cardiology (ESC)/ European Association for the Study of Diabetes (EASD) raccomandano (Classe I livello A) il beta-bloccante nel paziente diabetico con scompenso cardiaco con ridotta frazione di eiezione (13). Lo stesso si può dire nel post-infarto con frazione di eiezione <40% (13). Pertanto, l’uso del beta-bloccante è consentito – anzi: è atteso esercitare effetti favorevoli – nel paziente diabetico, anche in presenza di comorbosità quali l’ipertensione arteriosa, la cardiopatia ischemica e/o lo scompenso cardiaco con frazione di eiezione ridotta (5,6,12,13). La scelta del beta-bloccante, ovviamente, dovrà però ricadere su quelli beta1-selettivi, maggiormente efficaci e meglio tollerati rispetto ai non selettivi, come ben dimostrato dal Cardiac Insufficiency Bisoprolol Study II (CIBIS-II) (14). In questo studio, in particolare, la valutazione retrospettiva dell’efficacia e sicurezza di bisoprololo nel paziente con scompenso cardiaco e diabete mellito ha chiaramente dimostrato la capacità di bisoprololo di ridurre la mortalità anche nel paziente diabetico (-19%).
Oltre a quanto sopra, non è da trascurare il differente impatto sulla funzione respiratoria dei diversi beta-bloccanti. Infatti, l’uso di beta-bloccanti beta1-selettivi è in grado di preservare la pervietà delle vie aeree, come rilevato grazie ad uno studio in cui pazienti affetti da scompenso cardiaco sono stati trattati con il beta-bloccante beta1-selettivo bisoprololo successivamente ad un trattamento con il non selettivo carvedilolo, riportando un significativo incremento del forced expiratory volume in 1 second (FEV1) (15,16). Verosimilmente, inoltre, la prescrizione del beta-bloccante nel paziente con scompenso cardiaco, sia diabetico che non diabetico, deve prevedere l’uso non solo preferenziale del beta1-selettivo, ma anche il raggiungimento di dosaggi adeguati. In uno studio prospettico condotto in 1789 pazienti ambulatoriali affetti da scompenso cardiaco (età media 69.6±12.5 anni, 73% maschi), infatti, l’uso della dose intermedia o massimale di bisoprololo o di bisoprololo-equivalente è stata combinata alla maggiore riduzione di mortalità, progressione dello scompenso e/o morte improvvisa. Questo sia nella popolazione generale di pazienti che in quella (28%) affetta da diabete mellito (17).
A nostro giudizio, pertanto, il possibile limite di rilevazioni osservazionali (12) e dell’analisi post hoc dell’ACCORD (11) – pur entrambi di grande interesse – giace proprio nelle malattie concomitanti e nel tipo di beta-bloccante usato.
Per quanto attiene il primo punto, infatti, malgrado questo non si evinca né dal lavoro originale né dai dati pubblicati come supplemento, risulta davvero difficile pensare che un paziente diabetico riceva un beta-bloccante – o non lo riceva – in parità assoluta di condizioni patologiche concomitanti. Ciò con particolare riferimento alla cardiopatia ischemica ed allo scompenso cardiaco, patologie nelle quali il beta-bloccante rappresenta un consolidato caposaldo di trattamento anche in presenza di diabete mellito (15).
Per quanto attiene, invece, il secondo possibile limite, non sono rilevabili informazioni su quale beta-bloccante – certamente diversi – sia stato usato nell’ACCORD. Lasciando perdere il potere statistico, comunque debole, di questa analisi post hoc (11), resta infatti – e pesa come un macigno – la mancata considerazione delle differenze nelle proprietà farmacologiche tra beta-bloccanti selettivi e non selettivi. I beta1-selettivi, infatti, esercitano una maggior protezione a livello miocardico rispetto ai non selettivi, con più elevata maneggevolezza e minore interferenza con altri sistemi (15,16).
Pertanto, passare dall’ipotesi che i beta-bloccanti possano avere un ruolo protettivo nel paziente diabetico a quella che i beta-bloccanti siano combinati ad un maggior rischio di eventi cardiovascolari nello stesso paziente sembra azzardato. Questo è vero – crediamo di aver dimostrato o, almeno, supportato in modo almeno convincente – anche nei sottogruppi di pazienti affetti da malattie concomitanti e, specificatamente, nel paziente diabetico iperteso e/o con scompenso cardiaco caratterizzato da una ridotta frazione di eiezione.
Noi, personalmente, riteniamo che – nella vita reale, il beta-bloccante sia usualmente prescritto ad un paziente più complesso, sia se diabetico, sia se non diabetico. Questo è il vero elemento che può minimizzare, se non nascondere, i benefici che derivano dalla prescrizione del beta-bloccante nel trattamento del paziente diabetico, ma anche in quello affetto da malattie respiratorie croniche o “semplicemente” anziano (15).
Bisoprololo, carvedilolo, metoprololo e nebivololo sono stati valutati in studi clinici randomizzati su vasta scala, dimostrando di poter ridurre le ospedalizzazioni e prolungare la sopravvivenza (15,18). Siamo quindi d’accordo pienamente con le due recenti rivisitazioni (5,6) (Figura 1) che nuovamente, come Cruickshank nel lontano inizio di questo millennio (1), riportano i beta-bloccanti – soprattutto se b1-selettivi – all’attenzione del clinico, non “anche” bensì soprattutto nel paziente diabetico. Siamo anche d’accordo, infine, con una oculata disamina di autori italiani, che chiaramente dimostrano come il beta-bloccante sia efficace e sicuro nel paziente con scompenso cardiaco, anche quando affetto da patologie concomitanti quali il diabete mellito (15). In accordo completo con ciò, le più recenti Linee Guida per il trattamento dell’ipertensione arteriosa – pubblicate nel giugno 2023 – hanno rimesso i beta-bloccanti al centro di una strategia antiipertensiva che addirittura prescinde da specifiche indicazioni (ad esempio: fibrillazione atriale) e, comunque, dalla presenza o meno di diabete mellito (19). I beta-bloccanti citati nelle Linee Guida sono, in particolare, il bisoprololo ed il nebivololo, quest’ultimo caratterizzato da almeno due studi che – nel contesto della vita reale – ne dimostrano la netta superiorità cardio-cerebropreventiva nei confronti soprattutto di atenololo (Figura 2) (20,21). Oltre a ciò nebivololo è anche l’unico beta-bloccante che – grazie alla peculiare ed unica attività stimolatoria nei confronti del recettore b3 (Figura 3) – è in grado di promuovere una significativa produzione di monossido di azoto e, quindi, una significativa vasodilatazione endotelio-dipendente. Di particolare rilievo clinico, grazie anche a questa specifica attività, nebivololo è l’unico beta-bloccante che non deteriora, ma anzi migliora, la sensibilità insulinica (22). Allo stesso modo, nebivololo è l’unico beta-bloccante per il quale uno specifico gruppo di lavoro della Società Europea dell’Ipertensione Arteriosa ha dichiarato l’assenza di influenze negative sulla funzione erettile nel maschio (23): “l’impatto benefico di nebivololo sulla funzione erettile è stato dimostrato in numerosi studi clinici randomizzati”.
I beta-bloccanti, in conclusione, sono farmaci che vanno tutt’altro che evitati nel paziente diabetico. Nel loro contesto, tuttavia, è necessario distinguere tra quelli che – pur eccellenti – hanno una minore b1-selettività rispetto ad altri, quali bisoprololo e nebivololo – e quelli che – in ragione della peculiare stimolazione del recettore b3 – sono in grado di esercitare una maggiore azione cardioprotettiva e cerebroprotettiva, senza interferire – se non positivamente – con il metabolismo glicolipidico e con la funzione erettile (22,23). È questo il caso unico del nebivololo, non a caso più volte citato nelle Linee Guida ESH sull’ipertensione arteriosa pubblicate nel giugno del 2023 (19).
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