Quando nel mondo della medicina è entrato il concetto di medicina di precisione si è parallelamente affermata l’idea che la genetica sarebbe stata la soluzione di tutti i problemi. Di conseguenza si è assistito ad una sorta di passiva accettazione che ogni interpretazione tradizionale della patologia non avesse più significato e fosse relegata ad una medicina del passato che non sarebbe più esistita se non nei paesi a basso tenore economico. Il costo delle metodologie e la necessità di strumenti assai sofisticati per la interpretazione dei dati genetici rendeva questo approccio culturalmente e clinicamente appannaggio di pochissimi che si avvalevano dei propri risultati ottenuti a spese, però, di un impegno personale e tecnologico che rendeva pressoché impossibile la loro replicazione in una realtà quotidiana anche specialistica. In pochi anni, le ipotesi di semplicistica interpretazione del profilo genetico nella pratica clinica si sono andate attenuando sotto i colpi di una serie di evidenze che hanno largamente ridimensionato le aspettative. In primo luogo, la dimostrazione che in realtà le differenze genetiche riscontrate, enormi sul piano statistico perché basate su numeratori e denominatori con molti zeri, si potevano applicare solo ad una percentuale irrisoria di pazienti nei quali comunque non esprimevano una certezza, ma una probabilità di malattia o di efficacia dell’intervento. In secondo luogo, la dimostrazione che la variabilità genetica basata sui singoli polimorfismi significativi (in disequlibrio) corrispondevano ad una differenza irrisoria in termini fenotipici. Tipico esempio è l’analisi dei polimorfismi genici correlati all’ipertensione arteriosa, che si sono dimostrati in grado di giustificare singolarmente solo frazioni di mmHg nei valori di pressione sistolica e diastolica che non sono certamente in grado di condizionare un incremento misurabile del rischio cardiovascolare nello stesso paziente. Ultimo punto è la natura poligenica di molte condizioni associate e variabilità genotipica con condizioni di evidente induzione reciproca di fenotipi o collinearità tra geni con influenze multiple con conseguente difficoltà a stabilire un rapporto causa-effetto direttamente fruibile nella pratica clinica. Le limitazioni descritte in precedenza, tuttavia, non significano che la via genetica alla medicina di precisione sia priva di significato nella pratica clinica. In particolare, esistono due aspetti di genetica “potabile” che risultano di grandissima utilità anche nell’indirizzare la pratica clinica. Il primo è rappresentato dall’impiego delle metodiche di randomizzazione mendeliana che permettono di definire la corrispondenza tra caratteristiche del profilo genetico della popolazione e la presenza o meno della caratteristica codificata dai geni in causa. Tipico esempio è quello dei recettori del colesterolo LDL la cui presenza geneticamente determinabile condiziona un aumento del rischio cardiovascolare che non si osserva in coloro che invece presentano un profilo genetico opposto. Un’ulteriore applicazione di sostanziale potenzialità applicativa è l’impiego degli score genetici che identificano i soggetti sulla base della percentuale di varianti geniche sfavorevoli con l’evidenza che quanto più elevato è il valore di punteggio tanto più elevata è la probabilità che il soggetto presenti una elevata probabilità di manifestare una condizione primariamente o indirettamente patologica. Tipico esempio di score genetico efficace è quello correlato alla pressione arteriosa con evidenze di una correlazione lineare tra il valore dello score e i livelli di pressione arteriosa o la probabilità di incorrere in complicanze cardiovascolari come infarto miocardico o ictus.
Questa, tradotta in pratica, è la realtà più ambiziosa della medicina di precisione basata su applicazioni della genetica potenzialmente su larga scala ed il cui impiego potrebbe diffondersi con la riduzione dei costi tecnici, nonostante la necessità di una struttura tecnologica e conoscenze applicative di un livello difficilmente compatibili con l’attività clinica giornaliera. Esiste, però, anche la possibilità di una sorta di medicina di precisione “a buon mercato” che senza avvalersi della tecnologia, ma utilizzando in maniera attenta e estensiva i dati clinici disponibili potrebbe aiutare a raggiungere un livello di efficacia terapeutica più adeguato alle caratteristiche individuali dei singoli pazienti. La maggior parte delle informazioni utilizzabili in questo ambito derivano dai risultati degli studi clinici controllati e, in particolare, dalla lettura delle evidenze aggiuntive all’obiettivo primario che spesso possiedono un potere discriminate di rilevanza sostanziale. Un’analisi accurata dei sottogruppi degli studi permette, infatti, di definire una sorta di “identikit” del paziente ideale rispetto ai trattamenti in studio e ciò si traduce in un’applicazione di precisione dell’evidenze terapeutiche in grado di aumentarne l’efficacia e la tollerabilità. Tra gli esempi più rilevanti di questo approccio vanno annoverati i dati dello studio IMPROVE-IT che ha dimostrato come la somministrazione di ezetimibe e simvastatina sia più efficace nei pazienti diabetici come conseguenza dell’aumentata espressione della proteina NCP1L1 (bersaglio di ezetimibe) in presenza di malattia diabetica. Lo stesso processo di analisi può essere applicato ai risultati del discusso studio SPRINT che ha dimostrato l’efficacia di un trattamento aggressivo della pressione arteriosa che non appare applicabile in maniera generalizzata. In particolare, lo studio delle sottopopolazioni dimostra come tale strategia risulti singolarmente efficace solo nei pazienti maschi ultrasettantacinquenni, senza pregressa malattia cardiovascolare e renale e in grado di tollerare valori pressori basali inferiori a 132 mmHg in presenza di trattamento antipertensivo. Tale profilo identifica una popolazione di anziani con una età biologica favorevole che non rappresenta la tipologia generale del paziente iperteso. Nel mondo delle statine, lo studio JUPITER fornisce un esempio di medicina di precisione a buon mercato dimostrando come l’efficacia di tali farmaci in prevenzione primaria sia largamente maggiore nei soggetti con segni di infiammazione di basso grado (hs-CRP > 2 mg/L). Mentre, nell’ambito dello scompenso cardiaco, un esempio di analisi selettiva con implicazioni pratiche è quella dello studio PARADIGM-HF nel quale la superiorità clinica del trattamento con sacubitril-valsartan è più evidente nei soggetti più giovani, in classe NYHA 2-3 con valori più ridotti di FE% e non in trattamento pregresso con ACE-inibitori. Ovviamente questo approccio non esclude che il trattamento in esame possa essere efficace anche in altre tipologie di pazienti, ma sicuramente suggerisce la natura assolutamente indifferibile del trattamento in esame in coloro nei quali l’efficacia appare doppiamente palese su base generale (obiettivo primario dello studio) e su base individuale (aderenza ai criteri di sottopopolazione).
Ovviamente ogni studio clinico racchiude informazioni come quelle esemplificate e dovrebbero essere prese in considerazione per individuare i pazienti maggiormente sensibili al trattamento. Ciò rappresenta, in forma “artigianale”, il concetto di una medicina di precisione della quale tutti sentiamo la necessità per ridurre la quota di intervento generico ed aumentare la quota di interazione favorevole tra strategia terapeutica e paziente (Figura 1), in un mondo nel quale la logica di add-on terapeutico, che consegue all’interpretazione pragmatica dei risultati dei trial, rischia rendere ingestibile la terapia e improbabili i suoi benefici.
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