L’ipertensione arteriosa e il diabete mellito rappresentano i classici “cattivi compagni” in ragione della loro frequente coesistenza e del loro reciproco sinergismo nel condizionare un aumento del rischio cardiovascolare (Figura 1) (1,2,3). I pazienti ipertesi hanno un rischio di sviluppare il diabete 2-3 volte maggiore rispetto a quelli normotesi, mentre l’incidenza di ipere nei pazienti con diabete è circa due volte superiore a quella nei soggetti di pari età senza diabete, e dipende dal tipo di diabete (più frequente nei soggetti con diabete tipo 2), dall’età, dall’etnia e dalla presenza di obesità (4,5,6). È evidente come nella pratica clinica il medico si trovi spesso nelle condizioni di dover far fronte alle sfide che pone il trattamento antipertensivo nei pazienti diabetici. Non sorprende, quindi, che le diverse società scientifiche di area cardiovascolare e metabolica pongano particolare enfasi al controllo della pressione arteriosa nel paziente diabetico, proponendo delle raccomandazioni diagnostiche e terapeutiche sostanzialmente sovrapponibili (4,5,6).
Screening dell’ipertensione arteriosa nel paziente diabetico
La pressione arteriosa dovrebbe essere misurata routinariamente nel paziente diabetico a ogni visita; la diagnosi di ipertensione arteriosa (pressione sistolica >140 mmHg e/o pressione diastolica >90 mmHg) dovrebbe essere confermata con misurazioni pressorie ripetute, anche in giorni diversi; tutti i paziente diabetici dovrebbero misurare routinariamente la pressione a domicilio per identificare la possibile presenza di ipertensione “mascherata” o di ipertensione da “camice bianco”; la misurazione pressoria in ortostatismo dovrebbe essere effettuata in fase di diagnosi di ipertensione e poi ripetuta periodicamente nel corso del follow-up, o in caso di comparsa di sintomi da ipotensione e poi regolarmente una volta posta la diagnosi di ipotensione ortostatica (4,5,6).
Le linee guida richiamano l’attenzione sull’importanza per il paziente diabetico di una misurazione routinaria e accurata della pressione arteriosa che dovrebbe essere rilevata nel corso di ogni valutazione clinica, avendo cura di misurarla almeno la prima volta in entrambi gli arti superiori per individuare eventuali differenze legate a problematiche aterosclerotiche sottostanti (5,7). L’approccio convenzionale per misurare la pressione arteriosa è rappresentato dalla rilevazione in ambito ambulatoriale (pressione “office” o “clinica”) da parte di personale adeguatamente addestrato, utilizzando dispositivi oscillometrici semiautomatici, con un bracciale di dimensioni adeguate per la circonferenza del braccio, avendo cura che il paziente sia in posizione seduta, con entrambi i piedi appoggiati sul pavimento e il braccio appoggiato su un supporto e posizionato all’altezza del cuore (7). Al fine di ridurre la variabilità delle misurazioni, la pressione arteriosa dovrebbe essere rilevata dopo 5 minuti di riposo, registrando 2-3 misurazioni a distanza di 1-2 minuti per poi calcolare la media dei valori registrati (5,7,8). Le varie linee guida per la gestione dell’ipertensione arteriosa sottolineano l’importanza dall’automisurazione pressoria domiciliare al fine di un corretto inquadramento clinico del paziente e del monitoraggio della risposta al trattamento (5,7). La misurazione domiciliare della pressione arteriosa, peraltro, fornisce preziose informazioni che sfuggono alla misurazione in ambito ambulatoriale, soprattutto per ciò che attiene la diagnosi di ipertensione “mascherata” e di ipertensione da “camice bianco” (Figura 2) (5,7,8,9). L’ipertensione “mascherata” è definita dal riscontro di una pressione clinica normale (<140/90 mmHg) e di una pressione domiciliare aumentata (>135/85 mmHg), mentre la situazione diametralmente opposta definisce l’ipertensione da “camice bianco” (o ipertensione clinica isolata) caratterizzata da aumentati livelli di pressione “office” e da normali livelli di pressione domiciliare (5,9). L’ipertensione “mascherata” è frequentemente associata ad altri fattori di rischio, tra cui il danno d’organo asintomatico, e a un aumentato rischio di sviluppare diabete e ipertensione sostenuta (5,9). L’opportunità di ricercare sistematicamente l’ipertensione “mascherata” deriva dall’evidenza del considerevole aumento del rischio cardiovascolare a essa connesso, circa 2 volte superiore rispetto al soggetto realmente normoteso (5,9). Nei pazienti diabetici l’ipertensione “mascherata” è associata a un aumentato rischio di nefropatia, specialmente quando l’aumento della pressione arteriosa è prevalente nelle ore notturne (10,11). Per questo motivo è opportuno considerare per questi pazienti un trattamento antipertensivo che preveda sia modifiche dello stile di vita che una terapia farmacologica, e monitorarne l’efficacia ricorrendo al controllo ambulatorio o alla misurazione domiciliare della pressione arteriosa (4,5). Nei pazienti con ipertensione da “camice bianco” il riscontro di danno d’organo è meno frequente rispetto a quanto si osserva nei pazienti con ipertensione sostenuta, e meno frequente è anche l’occorrenza di eventi cardiovascolari (5). Non è ancora chiaro, tuttavia, se i soggetti con ipertensione da “camice bianco” possano essere considerati simili ai normotesi, perché in alcuni studi il rischio cardiovascolare a lungo termine di questa condizione è risultato intermedio, tra quello dell’ipertensione sostenuta e quello della vera normotensione (5).
Target pressori nel paziente diabetico
Il trattamento antipertensivo è indicato in presenza di valori di pressione misurata in ambulatorio >140 mmHg per la sistolica e/o >90 mmHg per la diastolica; il trattamento deve essere individualizzato in base alle specifiche caratteristiche del paziente; il target di pressione sistolica è <130 mmHg, o anche meno se ben tollerato (ma non <120 mmHg); un target di pressione sistolica <130 mmHg potrebbe essere raccomandato nei pazienti a rischio particolarmente elevato di eventi cerebrovascolari, quali i pazienti con storia di stroke; negli individui ultrasessentacinquenni è raccomandato un target di pressione sistolica compreso tra 130 e 139 mmHg; il target raccomandato di pressione diastolica è <80 mmHg (ma non <70 mmHg) (4,5,6,7).
La definizione del target di pressione arteriosa da raggiungere nel paziente diabetico è oggetto di un discreto dibattito scientifico che vede contrapposte le posizioni di chi sostiene l’opportunità di raggiungere target pressori particolarmente ambiziosi e quelle di chi suggerisce un approccio più conservativo.
Le raccomandazioni a seguire una strategia antipertensiva più rigorosa poggia sulle analisi combinate post hoc degli studi Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Blood Pressure (ACCORD-BP) e Systolic Blood Pressure Intervention Trial (SPRINT) (12,13,14), gli unici studi randomizzati che prevedevano l’assegnazione dei pazienti a un trattamento antipertensivo intensivo (target di pressione sistolica <120 mmHg) o conservativo (target di pressione sistolica <140 mmHg). Questi studi hanno confermato i benefici del trattamento antipertensivo più aggressivo anche nei pazienti diabetici, seppure a spese di un tasso più elevato di eventi avversi severi. In linea con queste evidenze, un’analisi post hoc dello studio Action in Diabetes and Vascular Disease: Preterax and Diamicron Modified Release Controlled Evaluation (ADVANCE) trial, ha dimostrato ridotti tassi di mortalità e ridotta incidenza di eventi cardiovascolari maggiori nei pazienti diabetici con valori pressori al basale <120/70 mmHg in terapia con perindopril+indapamide rispetto ai pazienti in terapia con placebo (14). Tali conclusioni sono concordi con quelle dello studio Hypertension Optimal Treatment (HOT), che ha evidenziato una riduzione del 51% degli eventi cardiovascolari nei pazienti diabetici con target di pressione diastolica <80 mmHg rispetto a quelli con target <90 mmHg (16), e dell’UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) che ha dimostrato outcome più favorevoli nei pazienti che avevano raggiunto un controllo pressorio più stringente (144/82 mmHg vs 154/87 mm Hg) (17). Le evidenze a favore di un approccio meno aggressivo sono parimenti robuste. Alcune evidenze metaanalitiche, infatti, sembrano dimostrare che i benefici del trattamento antipertensivo scompaiano per valori di pressione <130/80 mmHg, con un possibile incremento del rischio di morte per cause cardiovascolari e di infarto miocardico per valori pressori inferiori a tale soglia (18), eccezion fatta per il rischio di ictus che si riduce progressivamente con la pressione arteriosa (19).
Trattamento dell’ipertensione nel paziente diabetico
In presenza di valori pressori >140/90 mmHg è indicato l’avvio di un trattamento basato sull’adozione di stili di vita salutari e sull’uso di farmaci antipertensivi; l’approccio non farmacologico deve prevedere la riduzione dell’introito salino e del consumo di alcolici, l’aumento del consumo di frutta e verdura, un’attività fisica regolare (almeno 30 minuti di attività aerobica 5-7 volte a settimana), la correzione di un’eventuale eccedenza ponderale e la sospensione di un’eventuale abitudine tabagica; il trattamento farmacologico dovrebbe prevedere una terapia di combinazione con un inibitore dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE-I) o un inbitore del recettore di tipo 1 dell’angiotensina II (ARB) insieme a un calcio antagonista o un diuretico tiazidico o similtiazidico; la terapia farmacologica deve sempre prevedere l’uso di ACE-I o ARB in quanto questi trattamenti hanno dimostrato una superiore efficacia rispetto ad altri trattamenti nel ridurre l’albuminuria e nel rallentare la progressione della nefropatia diabetica (4,5,6,7).
Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa nel paziente diabetico è di importanza strategica nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari, particolarmente elevato in questa categoria di ipertesi. Nel paziente con malattia diabetica conclamata le evidenze dello studio ADVANCE, ad esempio, forniscono una chiara dimostrazione di efficacia protettiva della combinazione perindopril+indapamide nel ridurre gli eventi cardiovascolari (Figura 3) (20). Lo studio ha arruolato 11.140 pazienti affetti da diabete di tipo 2 che sono stati assegnati in maniera randomizzata al trattamento con l’associazione perindopril+indapamide o all’assunzione di placebo, in aggiunta alla terapia farmacologica codificata per questi pazienti. Dopo un periodo medio di 4,3 anni di follow-up, nei pazienti assegnati al gruppo perindopril+indapamide è stata osservata una significativa diminuzione del rischio relativo di eventi maggiori macro e microvascolari (-9%, p=0,04), della mortalità cardiovascolare (-18%, p=0,03) e della mortalità per tutte le cause (-14%, p=0,03). Sulla base dei risultati ottenuti si può stimare che nell’arco di 5 anni sarebbe possibile prevenire un decesso ogni 79 pazienti assegnati al trattamento attivo con l’associazione precostituita perindopril+indapamide. I dati dello studio ADVANCE appaiono ancor più rilevanti se si considerano le peculiarità dei pazienti reclutati, diabetici con una storia di malattia cardiovascolare o almeno un fattore di rischio addizionale, per tre quarti anche ipertesi in trattamento farmacologico. I dati ottenuti da una sottoanalisi dello studio ADVANCE sembrano fornire anche una chiara indicazione di efficacia della triplice terapia di combinazione ACE-inibitore+diuretico+calcio-antagonista in termini di riduzione degli “hard end-points”, evidenziando una riduzione significativamente maggiore del rischio relativo di morte (-28%) nei pazienti che al momento dell’arruolamento assumevano anche un calcio-antagonista oltre al trattamento oggetto di valutazione di efficacia nello studio (21).
È interessante notare come nell’ambito della terapia diuretica nel trattamento dell’ipertensione arteriosa indapamide-diuretico similtiazidico occupi una posizione di assoluto rilievo in ragione di un meccanismo d’azione unico ed esclusivo che combina l’effetto sul bilancio idrosalino con una serie di effetti additivi che possono essere così sintetizzati:
a) riduzione dell’attivazione del sistema nervoso simpatico;
b) proprietà calcio-antagoniste;
c) incremento della produzione di prostaciclina;
d) protezione contro i radicali ossidanti e dotati di lesività nei confronti della funzione endoteliale (22).
L’insieme di queste proprietà ne giustifica la spiccata efficacia antiipertensiva anche in monoterapia, ma anche la capacità di svolgere un’efficace protezione nei confronti del danno d’organo. Indapamide, inoltre, non condivide l’innegabile effetto prodiabetogeno e iperuricemizzante dei diuretici tiazidici, che di per sé si traduce in un eccesso di rischio cardiovascolare in ragione delle evidenze che dimostrano come un aumento dei livelli plasmatici di acido urico determinino un incremento della presenza di danno d’organo subclinico e del rischio relativo delle principali complicanze cardiovascolari (22). Indapamide sembra, quindi, rappresentare la terapia diuretica di riferimento per il trattamento dell’ipertensione arteriosa complicata da alterazioni palesi o potenziali del profilo metabolico che sono oggi presenti in almeno il 50% della popolazione ipertesa. Un’ulteriore peculiarità di indapamide (rispetto alla classe dei diuretici tiazidici, incluso clortalidone) è rappresentata dalla sua capacità di influire favorevolmente nei confronti della funzionalità renale, il cui declino accelerato rappresenta oggi uno degli aspetti più evidenti di danno d’organo e al tempo stesso una delle determinanti più efficaci di rischio cardiovascolare (22). Questi molteplici e peculiari effetti benefici di indapamide rendono ragione del vantaggio addizionale in termine di protezione cardiovascolare che può esercitare rispetto ai diuretici tiazidici a parità di riduzione pressoria, tanto rilevante da spingere un esperto come Norman M. Kaplan a considerare indapamide il miglior diuretico per il trattamento dell’ipertensione (23). L’effetto metabolico sfavorevole di alcuni trattamenti antipertensivi o, all’opposto, le potenzialità eumetaboliche di altri sono alla base dei risultati dello studio Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial – Blood Pressure Lowering Arm (ASCOT-BPLA), in cui il rischio di diabete mellito di nuova insorgenza – outcome terziario predefinito – nei pazienti trattati con la combinazione perindopril+amlodipina è risultato ridotto del 34% rispetto ai pazienti trattati con la combinazione atenololo/diuretico tiazidico, indipendentemente dal livello di rischio di sviluppare diabete mellito dei singoli pazienti al momento dell’arruolamento (Figura 4) (24). Queste evidenze di una particolare efficacia protettiva di alcuni trattamenti antipertensivi appare di non trascurabile importanza nella gestione di alcuni pazienti, quali gli ipertesi diabetici, nei quali è fondamentale massimizzare la resa protettiva di ogni determinata riduzione pressoria.
Nel corso degli ultimi anni un crescente numero di evidenze hanno dimostrato come alcuni farmaci ipoglicemizzanti, principalmente appartenenti alla classe degli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT-2i), potrebbero contribuire in misura non trascurabile al controllo della pressione arteriosa nel paziente diabetico (5,6). Indubitabilmente, gli SGLT-2i possono essere considerati promettenti farmaci di grande utilità tra le scelte terapeutiche per il controllo del rischio cardiovascolare nei pazienti diabetici ipertesi, in considerazione del fatto che sono farmaci ben tollerati, migliorano il profilo glico-metabolico, contribuiscono a migliorare il controllo pressorio nelle 24 ore, inducono diuresi osmotica e verosimilmente riducono il carico del ventricolo sinistro.
Conclusione
L’ipertensione arteriosa rappresenta una delle principali determinanti prognostiche nel paziente diabetico in grado di influenzare sfavorevolmente l’evoluzione delle complicanze micro e macrovascolari della malattia. Robuste evidenze scientifiche dimostrano l’efficacia protettiva della terapia antipertensiva nel paziente diabetico. È fondamentale, quindi, ridurre la pressione arteriosa al target minimo di <140/90 mmHg nella generalità dei pazienti prevedendo target più ambiziosi nei pazienti a rischio cardiovascolare particolaremente elevato e/o che tollerino riduzioni pressorie più importanti. Le modifiche dello stile di vita rappresentano uno dei pilastri su cui poggia il trattamento antipertensivo del paziente diabetico iperteso, unitamente al trattamento farmacologico con ACE-I, ARB, calcio antagonisti diidropiridinici e diuretici similtiazidici, trattamenti che più di altri hanno dimostrato un’efficacia protettiva. Il trattamento dovrebbe essere sempre individualizzato in base alle specifiche caratteristiche del paziente, prediligendo quelle strategie terapeutiche e quelle molecole per le quali esistono evidenze particolarmente robuste di un’efficacia protettiva superiore.
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